mercoledì 30 settembre 2015

Babel di Alejandro González Iñárritu, quattro storie di incomunicabilità e di dolore si intersecano. Un film molto creativo ma che esibisce un po' troppa tecnica. Nonostante ciò coinvolge e appassiona. Bel cast

Oggi vi voglio parlare di un film di qualche anno fa. Un film di un regista eccezionale che ho menzionato e trattato già altre volte (l'ultima qualche giorno fa). Drammatico, triste, ma in un certo senso più speranzoso rispetto ad altri da lui diretti.
Mi riferisco a Babel di Alejandro González Iñárritu.
Ecco la recensione:




Babel di Alejandro González Iñárritu del 2006. Con Brad Pitt, Cate Blanchett, Adriana Barraza, Gael García Bernal, Rinko Kituchi, Kōji Yakusho, Mustapha Amhita, Mohammed Boubker Ait El Caid, Elle Fanning, Nathan Gamble, Said Tarchani, Mustapha Rachidi, Michael Peña, Clifton Collins Jr.. (142 min. ca.)
Quattro storie si intrecciano. 
Due bambini pastori delle montagne marocchine si esercitano sfidandosi con il fucile del padre. Ma accade un incidente.
Richard (Pitt) e Susan (Blanchett) Jones, coppia americana in crisi dopo la morte bianca del loro terzo figlio, vanno in Marocco per cercare di ritrovarsi. Improvvisamente, mentre sono sul pullman per il giro turistico, lei viene colpita da un proiettile tra il collo e la spalla.
Amelia(Barraza), babysitter messicana residente in America, deve tenere i bambini di una coppia che ha avuto un contrattempo in vacanza, anche se dovrebbe avere la giornata libera per il matrimonio di suo figlio. Li porterà con sé in Messico.
Una ragazza giapponese sordomuta con alle spalle la morte della madre, non riesce ad accettare il suo problema e il rifiuto dei suoi coetanei, quindi cerca di offrirsi maldestramente anche ad un poliziotto...





































Quattro vicende apparentemente lontanissime, con ambientazioni differenti, si mescolano e sono più legate di quanto si possa immaginare, in una pellicola che superficialmente potrebbe apparire scontata.
Eppure non lo è. O almeno non del tutto.
È intelligente, profonda e parla dell'incomunicabilità, dei sensi di colpa, del dolore e del perdono. Ogni storia - a parte il parallelismo prima e l'intersecamento poi - ha questi elementi ben chiari, forse anche troppo espliciti. E funzionano.
Se la sceneggiatura è come sempre ben scritta, da Guillermo Arriaga che ci mette sempre colore e una forza narrativa incisiva, la struttura dell'opera (marchio di fabbrica anche di 21 grammi) e quindi l'idea registica e di montaggio perno e caratteristica principale, rischiano di rivoltarglisi contro. 
Ossia che gli episodi in sé sono solo un pretesto per mettere in atto la decostruzione/destrutturazione e la ricostruzione ad incastro. Dunque, realizzare un bel lavoro tecnico ma leggermente meno corposo nei contenuti.
Nonostante ciò lo spettatore si lascia coinvolgere e appassionare subito anche per l'abilità di Iñárritu di mostrare la realtà, immergendo i personaggi in contesti veri e suggestivi. 
Un enorme merito va anche alla fotografia che cambia da storia a storia e si adegua al contesto, descrivendo perfettamente gli ambienti.
Il cast è in gamba. Forse la migliore del gruppo è Cate Blanchett, seguita da Adriana Barraza: la disperazione sul suo vosto stravolto e il suo incedere stanco nel deserto sono particolari difficili da dimenticare. Bravissimi gli attori non troppo famosi e i bambini. Soprattutto Nathan Gamble.
Altro grande contributo è dato dalla colonna sonora composta da Gustavo Santaolalla: ricca di pathos, emozionante, mai troppo invadente. Anzi, caratterizzante. Davvero memorabile.
Un film studiato nei minimi particolari che rischia di girare un po' su se stesso per autocompiacimento allungando, dilatando quindi i tempi.
Ma funziona. Il messaggio arriva forte e chiaro, così come lo sguardo del regista e dello sceneggiatore e ne mostra le capacità e una certa poesia nel girare, nel presentare certe scene. Il pubblico non può rimanere indifferente.
Da vedere. Consigliatissimo.


Voto: ***1/2







Il trailer:










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lunedì 28 settembre 2015

CULT anni '80: Il tempo delle mele di Claude Pinoteau, commedia romantica per teenager simbolo di una generazione. Leggerezza, ingenuità e un pizzico di umorismo per un film datato soprattutto nei toni. Debutto cinematografico di Sophie Marceau

Oggi vi voglio parlare di un film francese di parecchi anni fa. Una commedia romantica per teenager diventata di culto e che ha avuto un enorme successo (e un sequel).
Mi riferisco a Il tempo delle mele di Claude Pinoteau.
Ecco la recensione:




Il tempo delle mele (La Boum) di Claude Pinoteau del 1980. Con Sophie Marceau, Brigitte Fossey, Claude Brasseur, Denise Grey, Alexandre Sterling, Sheila O'Connor, Alexandra Gonin, Dominique Lavanant. (110 min. ca.)
Parigi. Vic Berreton (Marceau), una tredicenne, si innamora del suo coetaneo Mathieu (Sterling). Intanto dovrà affrontare anche un momento di crisi dei suoi genitori (Fossey e Brasseur), lui dentista, lei illustratrice. Verrà in suo aiuto la pimpante bisnonna Poupette (Grey).
 


















Film romantico diventato simbolo di una generazione.
Datato, un po' snervante per la storia d'amore superficiale, trattata però con delicatezza, ingenuità, vero (e sacrosanto) disincanto. Più interessante e divertente (fino a tre quarti, quando la trama si fa troppo telefonata) la vicenda dei genitori.
Sceneggiato in modo intelligente, con una regia consapevole e un bel montaggio creativo, ha molti elementi riusciti e dei toni farseschi davvero acuti nel rappresentare una società che cambia prendendo ispirazione dall'America (la musica, la pubblicità) nel segno del consumismo e della borghesizzazione.
Sophie Marceau al suo debutto assoluto nel mondo del cinema, è in parte, molto naturale, ha il piglio giusto. Claude Brasseur è poco affascinante ma il ruolo gli si confà. Brigitte Fossey è a suo agio. Probabilmente però la migliore del gruppo è Denise Grey: vispa, effervescente, che ha dalla sua qualche scena simpatica (ma anche qualche battuta sgonfia). Il resto del cast fa quel che può.
Di grande successo, è ricordato soprattutto per la colonna sonora - alquanto irritante, dato che viene proposta fino alla nausea - di Vladimir Cosma. La canzone (e tema portante) Reality cantata da Richard Sanderson, ha avuto un successo mondiale ed è uno dei capisaldi degli anni '80.
Da vedere per curiosità nonostante tutto il buonismo di fondo, le melensaggini e la tipologia di target a cui era destinato all'epoca. Consigliato.
(Il titolo originale significa "La Festa", festa che, per l'appunto, vede nascere il primo amore della protagonista).


Voto: **1/2








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domenica 27 settembre 2015

Nymphomaniac vol. 2 (Director's Cut) di Lars Von Trier, seconda parte ancora più agghiacciante, esplicito e disturbante, che mostra la vera natura non solo della protagonista ma dell'essere umano in generale. Pugno allo stomaco con scene quasi inguardabili. Efficace

Oggi vi voglio parlare del secondo capitolo del film precedente.
Ossia Nymphomaniac vol. 2 di Lars Von Trier.
Ecco la recensione [ATTENZIONE, immagini FORTI]:





Nymphomaniac vol. 2 (Director's Cut) di Lars Von Trier del 2013. Con Charlotte Gainsbourg, Stacy Martin, Stellan Skarsgård, Christian Slater, Uma Thurman, Hugo Speer, Shia LaBeouf, Connie Nielsen, Nicolas Bro, Felicity Gilbert, Jesper Christensen, Cyron Melville, Sophie Kennedy Clark, Christian Gade Bjerrum, Jamie Bell, Willem Dafoe, Mia Goth, Jens Albinus, Udo Kier, Caroline Goodall, Jean-Marc Barr. (330 min. ca.)
Ritroviamo la nostra Joe (Gainsbourg) che continua a raccontare la sua storia a Seligman (Skarsgård). Racconta di quanto sia cattiva, di quanto sia malvagia, del sesso promiscuo, dell'abbandono notturno di suo figlio ancora piccolino per andare da K (Bell) a praticare sadomasochismo, bondage (ma mai un rapporto sessuale vero e proprio), dell'aborto casalingo "fai da te", del cambio di rotta in tutti i sensi. Ci sarà più di una sorpresa.



















Secondo capitolo ancora più lungo del primo in questa versione estesa e ancora più scioccante e complesso nei suoi piani di lettura. Eppure, paradossalmente, anche più "spiegato" e semplificato dagli stessi personaggi, ossia la voce stessa del regista.
Joe è proprio Von Trier e forse Seligman è la sua coscienza o l'altra faccia.
Citazioni colte, religiose, sulla fede, sull'etica morale, ancora una volta sulla musica (e matematica) ed altre un po' più basse e più qualunquiste, per un film che penetra dentro l'inconscio dello spettatore, si deposita lì e più ci rimane più fa star male.
Perché lavora sul lato psicologico ma mostra sempre più lucidamente anche il disagio della protagonista. Sola con se stessa, mai amata davvero se non dal padre, dipendente dal sesso suo malgrado, apatica e insensibile soltanto all'apparenza. Ma cattiva lo è davvero? È davvero soltanto una persona stanca di essere sottomessa, schiacciata dalla sua dipendenza?
Scene intollerabili e agghiaccianti perché realmente fredde e quasi inumane nella messa in scena (quella integrale dell'aborto con spiegazione medica inclusa è da incubo) ed altre con una resa poetica e visiva impeccabile, quasi da dipinto.
Un finale all'apparenza banale ma metaforico come tutto il resto.
Che Seligman simboleggi invece lo spettatore?
Una cosa bisogna dirla: non c'è misoginia. Come non c'è compiacimento nel rappresentare le varie pratiche sadomaso (nel mostrare i rapporti sessuali invece il dubbio un po' rimane).
Resta comunque un film forte, un pugno allo stomaco che si fa sentire, ma anche un'opera che fa riflettere.
Girato benissimo (l'uso della camera a mano è ridotta al minimo), scritto altrettanto con qualche furbizia qua e là, con un'eccezionale composizione dell'immagine, con un'ottima fotografia (parole già spese per la prima parte).
La Gainsbourg qui è la protagonista dolente e in parte (più espressiva e credibile del solito). Jamie Bell in un ruolo inaspettato. Willem Dafoe appare pochissimo nel ruolo del capo di Joe.
Disturbante ma efficace e, nonostante la durata, mai pesante.
Da vedere. Consigliato.


Voto: ***1/2






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